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Parto anonimo: il figlio può sempre cercare la madre

Parto anonimo: la notizia giunge dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con sentenza “nell’interesse della legge” ex art. 363 c.p.c., risolve una questione, non solo di importante rilevanza giuridica ma anche e soprattutto di rilevanza sociale: il rapporto tra il diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini ed il “contrapposto” diritto (all’oblio) della donna che ha partorito avvalendosi dell’anonimato.

Il tutto alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013 che ha* eliminato dal nostro ordinamento la norma che non attribuiva al figlio il diritto di accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei suoi genitori biologici nel caso in cui la madre abbia dichiarato di non volere essere nominata, rimandando altresì al legislatore il compito di emanare una disciplina del procedimento di interpello riservato, grazie al quale il figlio avrebbe potuto chiedere alla madre anonima se volesse invece cambiare la sua decisione iniziale e quindi di svelare la sua identità.

Solo che dal 2013 nessun intervento del legislatore si è avuto, lasciando di fatto un vuoto normativo. Al figlio quindi non sarà vietata la ricerca, per tramite del giudice, della madre che l’aveva messo anonimamente al mondo, ma tale diritto sarà di fatto non azionabile in quanto non c’era (e non c’è) una disciplina procedimentale conforme alle regole dettate dalla Corte Costituzionale. Una scelta di metodo che sarebbe necessariamente toccata all’organo legislativo che, previa individuazione (politica) della migliore e condivisa strategia, avrebbe dovuto adottare la procedura conforme ai principi dettati. Non era infatti ancora previsto un procedimento stabilito dalla legge che permettesse al giudice di interpellare, su eventuale richiesta del figlio, con la massima riservatezza la madre che avesse chiesto di non voler essere nominata (parto anonimo).

I Supremi giudici quindi hanno emanato il principio: “in tema di parto anonimo, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”**

Una notizia certamente favorevole per coloro che da ora potranno avvalersi di tale principio al fine di conoscere le proprie origini, ma che lascia aperti non pochi dubbi e perplessità sul funzionamento generale del nostro sistema politico-legislativo, soprattutto in una materia così tanto delicata quale quella ad oggetto.

 

*dichiarata «l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a 2 Corte di Cassazione – copia non ufficiale norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione».

** Civile Sent. Sez. U Num. 1946 Anno 2017

 

 

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